Gli spogliatoi sono fatti di anime. Si intrecciano, cercano di fare il loro, si ingarbugliano. Se il groviglio viene bene, capace che riusciamo a sfangarla pure, in certi casi, da qui a fra ottanta minuti. Anime belle in corpi bruttissimi, anime brutte in visi angelici, gladiatori in vesti di putti. Ce n’è per tutti. Da fuori tutti gli spogliatoi, soprattutto quando giochi in campo neutro, dicono poco. È tutto lì dentro, è tutto qui dentro. C’è il mister che dà le ultime direttive, il capitano che parla. C’è chi piange, di solito è quello più grosso. Non chiedetemi perché, è così e ve lo giuro sui miei 138 chili di granitica esistenza. Poi ci si raggruppa tutti insieme. C’è chi dice che quello è l’abbraccio più bello del mondo. A suffragare questa tesi di solito sono quelli che ancora non hanno figli, ma non è un’opinione da buttare. O meglio, non ci vanno troppo distante. Queste cose, però, le vedi solo se sei parte di uno spogliatoio. Le capisci da dentro, le vivi. E non è nemmeno così facile raccontarle. Ci riescono molto meglio quelli che, in uno stanzone del genere, non ci sono mai entrati, ma questa è un’altra storia. Quel che vi posso garantire è che da fuori si percepisce poco.

La differenza la si vede fuori. Maglie pesanti, ignoranti, rosse di un rosso veterano di mille lavatrici. E questi siamo noi. Maglie nere, leggere, aerodinamiche, aderenti, appena sfornate. E quelli sono loro. All Blacks. Li guardi bene, lì incolonnati fuori dalla porta dello spogliatoio, e capisci che il discorso dei grovigli di anime fatti bene non può valere per tutti. Non sempre, almeno. Oggi no, di sicuro. Non è sminuire me e i miei compagni, non fraintendetemi. È che sono due cose completamente diverse: Kobe e Simmenthal, caviale e tonno in scatola, lino e acrilico, Portogallo e All Blacks. Serve tutto, non esistono scelte sbagliate, ma si parla di cose diverse. I miei compagni lo sanno, io lo so. Lo sanno pure loro, di là, nonostante credo non sappiano nemmeno chi siamo e da dove veniamo. Certo, ora potrei cominciare a raccontarvi la lunga storia di Cenerentola, oppure quella di Davide e Golia. No, non è proprio così. La nostra è la storia di una generazione all’ultima spiaggia, di ragazzi con capelli bianchi e radicali liberi in costante aumento. Di gente che a rugby ci gioca se e solo se riesce a timbrare il cartellino e a farsi pagare ogni tot del mese. Di ragazzi che, al netto di un rimborso spese neanche troppo fenomenale, devono pagarsi le trasferte e giocarsi bene i giorni di ferie. Per la contentezza di mogli, fidanzate e figli. Ci sono avvocati, professori universitari, studenti. Il nostro numero 9 si è fatto conoscere come rugbista quando si è fatto l’Erasmus in Italia, per dire. Gente che se si fa male seriamente sono cazzi suoi e basta, o quasi. Io sono un veterinario. Ho un mio ambulatorio, ma il più delle volte mi potete vedere in giro per Coimbra e dintorni tra stalle e pollai. Pochi pollai, a dire la verità, sono pur sempre 138 chili di cristiano e nessun essere umano sano di mente metterebbe tra le mie mani un pulcino o un passerotto, a meno di emergenze.

Il mio destino, forse, è scritto nel mio nome.

Mi chiamo Rui Cordeiro. Cordeiro nella lingua di Pessoa è l’agnello.

Ne ho soccorsi tanti, nella mia carriera, ma come me nessuno mai. Un bell’agnello grasso e grosso, con pochi peli in testa e un po’ troppi sulla lingua. Non è che nelle storie l’agnello faccia sempre una bella fine, eh. Pure in mischia tante volte è così, visto che il rugby da queste parti è soprattutto rugby a 7. Cordeiro significa agnello, e in una squadra che in giro per il mondo si fa chiamare “Os Lobos”, i Lupi, capirete che non è semplice trattenere la risata.

Sono quello che soffre, l’agnello sacrificale. Buona questa.

Tre anni fa però, nel 2004, mica ridevano in tanti, in Europa. Nel giro di pochi mesi riusciamo a battere Georgia e Romania e a vincere l’European Championship, quello che tutti chiamano “6 Nazioni B”. Tomaz Morais, ex centro della nostra nazionale, giocatore di ottimo livello, viene eletto allenatore dell’anno. Siamo una bella squadra, tosta, inferiore davanti ma mobile e cinica quanto basta per far male.

No, non siamo al livello delle grandi nazionali europee.

A ricordarmelo costantemente sono i 200 punti presi in due partite dai Borders, squadra che ora non esiste nemmeno più. Ci dicono che, però, abbiamo delle buone possibilità di qualificarci per la Coppa del Mondo del 2007.

Basta ripetersi, dicono.

Ma credo che quelli che qua sopra descrivono gli spogliatoi da fuori siano gli stessi che non hanno mai giocato contro Georgia e Romania. Tra 2005 e 2006 perdiamo contro entrambe e, nella classifica aggregata, siamo terzi. Le cose si complicano, l’iter si allunga. Finiamo in un gironcino a tre con Italia e Russia, bisogna arrivare almeno secondi per continuare a sperare. Perdiamo pure alcuni naturalizzati, dicono non abbiano il nulla osta. Contro l’Italia ne pigliamo più di ottanta, ci giochiamo tutto contro i russi in casa. La sfanghiamo, 26 a 23, ci ritocca la Georgia e perdiamo ancora. Giocare in Georgia e contro la Georgia è una delle esperienze più dure ed esaltanti del rugby. Sono appassionati, esperti, ma impietosi con l’avversario. Noi, non crolliamo, ma loro la mettono sulla mischia.

Siamo sfiniti, ma non è ancora detta l’ultima parola. C’è ancora un biglietto per la Francia. Passa per Africa e Sudamerica, per Rabat e Montevideo. Il Marocco è tosto, ha gente che gioca in Francia da anni, ma riusciamo a batterlo. Rimaniamo in due per un posto, noi e l’Uruguay. Loro hanno un pedigree molto superiore al nostro, giocatori tosti e cattivi come la peste, ma a Lisbona li battiamo. Ci giochiamo tutto a Montevideo, altro catino bollente. Perdono per un rosso Bado, il loro giocatore più rappresentativo, ma mica mollano. In mischia me la devo vedere con Pablo Lemoine, ex colonna dello Stade Français, a questi livelli uno dei piloni più forti mai visti. Faccio una fatica terribile, mi mette in croce, ma non faccio falli stupidi, soprattutto nel finale. Perdiamo 18 a 12, passiamo per un punto. Siamo al Mondiale! È una delle serate più belle della mia vita, una notte da raccontare ai nipotini.

Beh, ecco, a patto di omettere qualche particolare.

Nel centro storico di Montevideo abbiamo uno scambio di vedute con gli avversari, qualcuno alza le mani, qualcuno chiama la polizia. In sei dei nostri passano la notte in carcere, e capirete che spiegare a casa che forse non si prende l’aereo per via di un paio di manette, beh, non è il migliore dei mondi possibili. Nemmeno con una qualificazione alla Coppa del Mondo in tasca. Vasco Uva, il nostro capitano, nel pomeriggio del lunedì aveva un’udienza e doveva a tutti i costi tornare a Lisbona, mamma mia quanto sudava.

Sapete, quel giorno a Montevideo nessuno ci dava un soldo. Nessuno avrebbe mai scommesso su di noi. Ma quel giorno abbiamo capito che ogni singolo momento di salita, ogni secondo dietro a delle sbarre, ogni centimetro che perdiamo in mischia ha fatto di noi quello che siamo: un gruppo solido, magari non il più forte del mondo, ma coeso e organizzato come un branco di lupi. Appena possiamo facciamo di tutto per rimanere uniti. Anche ora, anche nel momento in cui dobbiamo scendere in campo. Ognuno con la mano sulla spalla del compagno che ci sta davanti. Gli All Blacks sembrano non guardarci, quasi non badano a noi. D’altronde sono i favoriti per il titolo. Ne lasciano a riposo tanti, ma gente come Conrad Smith, Nick Evans, Jerry Collins prima di oggi li abbiamo visti solamente in TV.

O pagando fior di biglietti, anche aerei. Io parto dalla panchina, ma l’haka me la godo in campo.

Sono terribili, furenti, le maglie stesse evidenziano muscoli che non esistono.

O meglio, muscoli che da me hanno marcato visita molto tempo fa.

Se mai ci sono stati.

Tomaz, il coach, ci ha detto di resistere il più possibile. Di provarci, in caso, che se la prendono sotto gamba qualcosa possono concedere. Hai voglia a provarci, questi attaccano come belve. Sono cinghiali, tori, ippopotami, tutte bestie che quando decidono di andare oltre vanno oltre. Noi? Una diga fatta di lupi. Bolsi, fisicamente inferiori, con qualche pelo bianco di troppo. Certo che siamo bestie feroci pure noi, ma se le prede sono più veloci rimaniamo magri, affamati e segaligni.

Io un po’ meno, ma questa è un’altra storia.

Ci segnano subito due mete. Poi, però, cominciano a strafare. Rallentano, commettono leggerezze. Qualche spazio, è vero, ce lo concedono. Gonçalo, il nostro numero 10, l’eroe del titolo europeo del 2004, butta dentro un drop e ci mette nel tabellino. Eh sì, però loro si risvegliano. Segnano altre sei mete prima dell’intervallo, totale 52 punti. Già durante il primo tempo il coach mi aveva chiamato: “Entri tu”. Le gambe cedono per un momento, vuoi perché non ti aspetti mai di entrare così presto, vuoi perché ti preoccupi un po’ per il compagno che ti lascia il posto. Passo l’intervallo a scaldarmi, a corricchiare, a provare ingaggi. Mi aspetta Greg Somerville, non so se rendo l’idea. E, in panchina, pronto a subentrargli, c’è Carl Hayman. Due monumenti della mischia neozelandese. Due mostri di tecnica e di bravura. Certo, non è che abbia affrontato degli scarsoni finora: in carriera mi sono capitati davanti, oltre a quel Lemoine, tutti i georgiani e romeni che vi vengono in mente (ve li regalo, se volete), Perugini e Castrogiovanni, Euan Murray.

Come questi, però, nessuno.

Oh, devo dirlo: mi sento parecchio un agnello, davanti a quelli là. Un agnello in mezzo ai lupi, un agnello che deve far coraggio e morale ai lupi. Il coach ci incoraggia e ci dice di non arrenderci, che prima o poi un errore lo faranno.

Che ti viene pure da chiedergli se ha veramente presente chi sono quelli lì vestiti di nero, che forse mica l’ha capito.

Poi, però, fanno rimbalzare un ovale a terra. Si addormentano e si smarriscono.

Ora o mai più.

Siamo a centimetri dalla linea. Non è che facciamo breccia, ma la palla ce l’abbiamo noi e, almeno per ora, non riescono a togliercela. Ci proviamo a testate, testate su testate. E sempre un paio a ripulire. Siamo stanchi, ma siamo il miglior groviglio che possiamo mai essere. Tocca a me. Loro hanno già capito che cosa farò. Mica sono credibile come calciatore, né come apertura. E però sono 138 chili di veterinario con pochi peli sulla testa e troppi sulla lingua, servirà pure a qualcosa tutto ‘sto carico sporgente. Vado oltre, mi cadono sopra in due o tre, non mi ricordo. Ho schiacciato, esulto, ma l’arbitro non ha visto.

Va al piano di sopra, chiama il TMO.

Parlottano. Poi torna e fischia: è meta.

Loro si guardano per un po’, non se l’aspettavano. Dicono che di solito, in questi frangenti, si rischia di perdere il controllo del match, l’inerzia tende a cambiare e a ravvivare l’incontro.

Ma credo non sia questo il caso, visto che ci fanno altre otto mete.

Usciamo comunque tra gli applausi. Dicono che lo stadio sia venuto giù dopo la mia meta, ma io non me ne sono reso conto. Passi mesi, forse anni della tua vita a pensare a come reagirai quanto ti renderai conto di aver fatto qualcosa di grande e poi puff, in quel momento sei il più rincoglionito del mondo.

Non facciamo a tempo a sederci negli spogliatoi che bussano alla porta.

Sono loro.

E hanno delle birre in mano.

Quella destinata al sottoscritto me la porge Carl Hayman.

E ora chi glielo dice che sono un pilone di 138 chili ASTEMIO?

Sì, siamo una minoranza, ma sappiamo tener su una mischia anche noi. E ringraziateci, quando afasici e barcollanti riuscite ad elemosinare un passaggio verso casa dopo il terzo tempo.

Hayman mi guarda, mi faccio capire. Afferra al volo e torna con una gazosa.

Poi si resta insieme per un po’, si parla del più e del meno. Oh, vi dico la verità, mica mi ricordo tanto bene quel che ho detto al mio avversario. Mica mi ricordo se gli ho detto che la prossima partita, quella contro la Romania, sarà l’ultima della mia carriera. Mica mi viene in mente se gli ho detto che sono un veterinario e che certe volte curo vitelli dal collo meno pronunciato dal suo.

So solo che lì, in quello spogliatoio, si stava tanto bene. Anime belle in corpi bruttissimi, anime brutte in visi angelici, gladiatori in vesti di putti. Veterinari, avvocati, studenti, professori, campioni di rugby.

Ce n’è per tutti.

Gli spogliatoi sono fatti di anime che si intrecciano e si ingarbugliano. E voi che rimanete là fuori non sapete nemmeno cosa vi perdete.

Mi chiamo Rui Cordeiro, ho 31 anni portati malissimo e 138 chili di granitica resistenza a botte, placcaggi e piloni avversari. Sono quasi un ex giocatore di rugby, ho segnato una meta agli All Blacks e convinto Carl Hayman dell’esistenza di piloni astemi nel nostro universo. Durissima, se ci pensate.

Sarà molto più dura, la settimana prossima, convincere Pedro, il toro della famiglia Rodrigues, dell’esistenza di piloni col collo più grosso del suo.

E convincere tutti che, a volte, un agnello in mezzo ai lupi ci sta proprio bene.