Il Capitano ha tutti attorno. Aspetta l’arrivo di tutti: c’è chi ha il fiatone, chi ha le mani sui fianchi, chi è proprio sfigurato dalla fatica. Sono in 13, davanti a lui, Valter è appena finito sotto la doccia. Li aspetta, li squadra tutti, poi sentenzia: “Va bene, adesso ne facciamo un’altra”. Si mette a posto i lunghi capelli, scarmigliati e sfatti dai ripetuti sforzi. La barba gli dà una certa aria da lanzichenecco, da uomo che sembra sia stato creato apposta per essere piazzato lì al centro della contesa, da uno che sembra nato per farsi seguire e ascoltare. Massimo Giovanelli non ha ancora 31 anni, ma il carisma che si porta a spasso tra Francia e Noceto va oltre l’età anagrafica. Va oltre quel giorno in cui un poliziotto gli chiese di entrare nella sua squadra di rugby in cambio di un verbale stracciato. E va oltre il giorno in cui un catalano dalla voce baritonale, al secolo Georges Coste, decise di cingere la fascia al braccio a quel tipo che assomigliava tanto, per aspetto e portamento, a uno dei Bravi di Don Rodrigo. Fece un capolavoro, quel catalano col perenne stecchino tra i denti.
I compagni, silenti in un mare di fischi, approvano. Poi si riposizionano.
Non sono per loro, i fischi. Non sarebbe giusto. Nonostante il punteggio penda dalla parte dell’avversario. Però, mai visto Monigo così pieno. 9000 spettatori, gente in tripla e quadrupla fila alla balaustra intorno al campo, gente in piedi ovunque. Neanche oggi, neanche ai tempi di Benetton-Zebre. Magari Benetton-Zebre godesse di una cornice del genere, ma questa forse è un’altra storia. Quello che il 24 gennaio decide di sfidare il sole freddo di Treviso è un popolo ruggente, appassionato. Ci sono molti palati fini, come è giusto che sia in una delle roccaforti ovali italiane. E quella Nazionale è qualcosa che, una volta nella vita, bisogna vedere. È la squadra che ha sbancato Grenoble a marzo, che ha battuto tre volte in tre anni l’Irlanda, l’ultima volta a Bologna a dicembre, poco più di un mese fa. Non è facile ripetere un 1997 così, per il rugby italiano. Solo che la prima vittoria è già arrivata: il 16 gennaio è stato approvato l’ingresso azzurro nel leggendario 5 Nazioni. Frutto di una lunga serie di prestazioni convincenti, di una generazione che nessun’altra compagnia italiana ha saputo riportare a quei fasti, se non per qualche serie di 80 minuti. Solo l’Inghilterra non scioglie le proprie riserve, per il resto è un plebiscito: dalla Francia all’Irlanda, che hanno provato sulla loro pelle i progressi della nostra Nazionale, al Galles, impressionato dalla nostra crescita, alla Scozia. Ecco, sulla Scozia qualche dubbio c’era. Non fosse altro che, insieme all’Inghilterra, è tra le ultime partecipanti al Sei Nazioni ad averci concesso il cap negli anni ’90. Solo una volta, però, ad Edimburgo, 29 a 22 per loro al termine di un match equilibratissimo, nel 1996. Il secondo cap ce lo concedono il 24 gennaio del 1998, stadio comunale di Monigo, alle porte di Treviso. Per storia e pedigree solo gli inglesi sono meglio degli Highlanders: loro c’erano, nel 1883, a sfidare gli inglesi nel match considerato da tutti il battesimo di quello che poi sarebbe diventato il Cinque Nazioni. Di quello che dal 2000 passerà per Roma. Per quanto riguarda i risultati in campo, beh, a Edimburgo e Glasgow hanno visto tempi migliori: non ci sono più i fratelli Hastings, vero, ma è proprio la squadra a subire nel tempo una pericolosa involuzione: in tutto il 1997 riescono a vincere solamente contro l’Irlanda a Murrayfield, perdendo nettamente tutti gli altri match. La campagna autunnale, in particolare, è un disastro: contro Australia e Sudafrica gli scozzesi partono bene, vanno pure in vantaggio e tengono botta per un tempo, poi crollano: 37 a 8 contro i Wallabies, addirittura un 68 a 10 contro gli Springboks. Richie Dixon, selezionatore scozzese, ha la panchina che balla come se ad animarla ci fosse Fred Astaire, ma decide di prepararsi all’incontro di Monigo con un solo allenamento, a Mogliano, poche ore prima del match. Non è una gran scelta. Glielo fa capire pure Brian Ashton, allenatore della nazionale irlandese che non ha ancora capito cosa sia successo in quei dieci minuti a Bologna a dicembre. Ashton a mezzo stampa gli comunica “Occhio, che quegli azzurri lì sono una bella squadra, state attenti”. Ashton sa bene di cosa sta parlando, in Italia ci ha anche giocato, conosce bene il movimento italiano, e sa che quella Scozia deve inventarsi qualcosa di grosso per battere gli azzurri di Coste. Azzurri che, però, non si presentano al meglio all’incontro: certo, si allenano bene, hanno grossa confidenza, ma la prima linea è tutta da rifare. Massimo Cuttitta è infortunato, Franco Properzi a Milano non sta giocando, vorrebbe avvicinarsi a casa per stare vicino al suocero e Treviso ha già alzato le antenne, ma la dirigenza del Milan si oppone al trasferimento. Franchino, soprannome quanto mai inadatto per definire uno dei piloni italiani più forti di sempre, sale all’Aventino. La cosa si sistemerà di lì a poco, nel frattempo giocano Giampiero De Carli e Andrea Castellani, un romano e un aquilano. Anche in seconda linea non è che vada benissimo, visto che Checchinato non recupera e che la Scozia schiera Murray, un mostro nel decrittare le chiamate altrui. Coste ancora non lo sa, ma qui vince la partita: al fianco di Croci, uno degli eroi di Grenoble, schiera Valter Cristofoletto, che è una terza linea. Cedere qualcosa nella lotta aerea per avere più aggressività nei raggruppamenti . Eh, ne hai già poca di quella, ci sono Giovanelli e Sgorlon in terza linea. Andrea Sgorlon è di Passarella di San Donà, sul Piave, ma si è guadagnato sul campo il soprannome di Ciro, testo e musica del maestro Franco Ascantini, napoletano doc, che in lui vedeva un mariuolo in grado di anticipare sul tempo l’avversario, soprattutto nei raggruppamenti. Certo, la tendenza al fuorigioco è parecchio marcata, ma l’arbitro deve pur sempre accorgersene. Con due terze ali così e un Cristofoletto in più nel motore Coste si può permettere anche un Julian Gardner nel motore, un cavallo di razza in attacco. Dietro, tra i trequarti, si ferma Ivan Francescato, colpito da una potente sciatalgia, in campo va Luca Martin. L’ultima pennellata fresca di Coste tra i trequarti è Corrado Pilat, estremo di Treviso, che ha debuttato con meta a Bologna. Il ragazzo è flagellato dagli infortuni, il suo primo cap era già stato rinviato per cinque volte, ma Coste se n’è innamorato perdutamente: ha corsa, angoli e tempi di inserimento da iniziato del gioco. A questo aggiungete un lungo apprendistato da mediano di apertura, quindi mani e piedi tendenti all’ottimo, anche dalla piazzola. Contro l’Irlanda ha segnato la meta della staffa, quella del “non ci prendono più”, quindi va diretto in campo. Per il resto l’Italia può contare su una mediana, quella composta da Troncon e Dominguez, che se in quegli anni non è la più forte d’Europa date voi un’alternativa e su un fenomeno, là dietro, che hanno richiesto anche in Sudafrica e Nuova Zelanda: si chiama Paolo Vaccari, chiedete se si ricordano di lui a Lansdowne Road e a Grenoble, poi contate i singhiozzi. È un’ala terminale, con una progressione paurosa: è praticamente devastante in campo aperto, ma non è solo questo. Paolino infatti è una delle prime ali, almeno alle nostre latitudini, in grado di venirsi a “prendere il lavoro” in mezzo al campo, creando scompiglio ovunque poggi piede. La nostra è una bella squadra, secondo molti il colpaccio è possibile:
“Eh, abbiamo battuto la Francia a casa sua, non dovrebbe essere così complicato”.
Sbagliato tutto, è molto più complicato: Shepherd porta in vantaggio i suoi dalla piazzola, pareggia Diego una decina di minuti più tardi. La partita è equilibrata, forse ne abbiamo di più noi, ma al primo errore paghiamo caro: Pilat nei 22 scozzesi prova un calcetto a scavalcare, il rimbalzo premia Shepherd. L’estremo scozzese fugge per quasi 80 metri e schiaccia nonostante l’inseguimento di Vaccari, 8 a 3. Primo errore nostro, prima meta loro, benvenuti al Sei Nazioni ragazzi. Gli azzurri sono generosi, nei raggruppamenti come previsto siamo superiori, in touche balliamo contro Scott Murray, che non ha ancora 22 anni ed è già un colosso in seconda, ma non siamo male. Dominguez ci riporta sotto ancora dalla piazzola. Piano piano cominciamo a prendere coraggio, ma al secondo errore paghiamo ancora: Dominguez apre saltando il primo centro. Non siamo messi bene, lo capisce per primo Alan Tait, secondo centro scozzese, a cui non puoi dare centimetri. Fuga in mezzo ai pali, siamo sotto di 9. Due mete su due errori, 15 a 6. Pochissimi possessi, 9 punti avanti. Il Cinque Nazioni è questo, capacità di soffrire e di sfruttare ogni tipo di opportunità concessa. La gente per far male gli scozzesi ce l’hanno, basti pensare a quella cerniera 10-12 perfettamente intercambiabile composta da Craig Chalmers, uno dei primi casi di apertura feroce nei placcaggi, e da quel genio infinito di Gregor Townsend, che magari non sarà un mirino al momento di mirare i pali, ma quell’ovale va sempre e comunque, alla mano o al piede, dove dice lui. O a Rowen Shepherd, che il mirino ce l’ha e non ha paura di usarlo. O a Gary Armstrong, che è dietro la mischia da 10 anni, ma non te ne rendi conto, perché ha i garretti di un ragazzino e l’ubiquità del fenomeno. No, questi non sono per nulla una vittima sacrificale, questi sono venuti a Treviso a dire a tutti che sì, ne hanno prese un sacco e una sporta e che in casa hanno un palazzo sulla schiena, ma che non è ancora il momento del de profundis. Risaliamo di nuovo il campo, muovono ancora il tabellino con Diego, che supera per punti fatti quel vecchio convitato di pietra che era Hugo Porta, uno dei motivi per cui Dominguez ha scelto di rappresentare la terra di mamma. Shepherd risponde e chiude di fatto i primi 40 minuti. Stare sotto così fa male. Intendiamoci, perdere fa sempre girare le palle, ma così è troppo. Due errori pagati senza sconti e via, la Scozia è avanti, oltre il break. Per carità, loro sono una gran squadra, ma la tavola gliel’abbiamo apparecchiata noi! Sono in tanti gli azzurri arrabbiati dopo il primo tempo. Coste canalizza questa rabbia in poche parole, tocca le corde giuste. Monigo, nel frattempo, ha capito che i ragazzi laggiù in campo hanno bisogno di una spintarella. Dominguez accorcia ancora le distanze al piede, poi Tait ci regala un grosso brivido con un break profondo, lo fermiamo fallosamente, Shepherd allunga ancora. L’inerzia però non cambia, anzi. Perché se l’Italia nel primo tempo ha dominato possesso e raggruppamenti, nel secondo inscena Fort Apache. Dominguez accorcia ancora, poi sfiora il palo con un drop da 35 metri, robe che a treviso devono pensare ad un nuovo stadio. Luca Martin, su invito al piede sempre del nostro numero 10, si vede anticipato a centimetri dalla linea di meta da Townsend. Ci prova pure Cristian Stoica, avremmo a disposizione un 3 contro uno al largo, ma il centrone tira dritto. L’occasione sfuma, lo placcano in tre. Sono costretti a placcarlo in tre, Stoica è veramente un armadio lanciato giù per le scale. Chiedete, per referenze, ad un certo Sebastién Chabal chi sia stato, nella sua carriera, l’uomo più difficile da fermare in un campo da rugby. La difesa scozzese sembra sempre sul punto di cedere, ma tiene. A fatica, col fiatone, ma tiene. Forse aveva ragione quel tale, gli scozzesi resistono due volte: la prima finché hanno forze, la seconda, da sfiniti, finché non esalano l’ultimo respiro. Il guaio è che questi non muoiono praticamente mai. E no, non vale l’assunto secondo il quale noi abbiamo battuto i francesi e quindi Townsend e compagni, di cilindrata appena inferiore, sono più alla nostra portata. No, per niente. A Grenoble, nel giorno più luminoso della nostra storia ovale, affrontammo una squadra con la pancia piena, a Treviso invece è arrivata una squadra che non ha alternative alla vittoria. Sono due cose diverse. Il pedigree, la tradizione ovale, è anche questo stare in campo, questa tempra che ti permette di resistere agli assalti delle terze linee più sanguinarie del mondo e alle imboscate di qualche pilone con poco fiato, ma tanta cattiveria. A tratti sembra quasi che il Piave scorra in Cornovaglia.
E dove non arriva il Piave ci si mette l’arbitro. Lo sappiamo, lo sapete, una delle regole non scritte del rugby impone di non parlare mai dell’uomo col fischietto. Ma il nostro ingresso al Sei Nazioni, o comunque certe partite non solo nostre contro squadre di un certo blasone, ad un certo punto “girano”. Prendete le Fiji, per esempio, che alla Coppa del Mondo del 1999 vengono letteralmente derubate nel match contro la Francia grazie ad una direzione a tratti indecorosa di Paddy O’Brien, che poi farà una discreta carriera dietro le scrivanie. O come David Davies, che a Monigo ne combina di tutti i colori: già nel primo tempo qualcuno aveva storto il naso su un paio di punizioni scozzesi, ma nella ripresa si rischia l’apoteosi. Pilat calcia per sé stesso, arriva anche lui a centimetri dalla linea di meta, Armstrong, per fermarlo, lo può solamente sgambettare. Sarebbero meta tecnica e cartellino giallo, non arriva nessuno dei due.
O meglio, Il giallo arriva.
Contro l’Italia, qualche minuti dopo.
Gli azzurri sono all’arrembaggio, Giovanelli è il primo ad uscire sempre e comunque con la palla in mano, gli altri seguono a ruota come un branco di lupi affamati. L’ennesimo raggruppamento manda praticamente in ambasce la difesa scozzese, Troncon raccoglie e schiaccia. Viene giù praticamente di tutto, mancano cinque minuti alla fine, ma gli Highlanders non hanno la forza per poter tornare di qua a farci del male. Dominguez sta per trasformare, ma arriva di corsa il guardalinee. Parlotta con Davies, poi si allontana. L’arbitro chiama i capitani, parla con loro, poi annulla la meta e estrae un giallo in faccia a Valter Cristofoletto, reo di aver commesso una scorrettezza nel raggruppamento. Il guardalinee era a non meno di 40 metri dal raggruppamento in quel momento, cosa che fa di lui l’uomo con più diottrie del globo terracqueo. Il Capitano ha tutti attorno. Aspetta l’arrivo di tutti: c’è chi ha il fiatone, chi ha le mani sui fianchi, chi è proprio sfigurato dalla fatica. È il primo a portare i segni della lotta, ma anche i suoi non scherzano: Pilat ha le gambe che sembrano una cartografia del Caucaso, Martin ha placcato qualsiasi cosa gli sia arrivata vicino e la maglietta non è più bianca come al momento degli inni. Troncon è incazzato nero, e vorrei vedere voi al posto suo. Li aspetta, li squadra tutti, poi sentenzia: “Va bene, adesso ne facciamo un’altra”.
Si riparte, mancano cinque minuti. La Scozia si libera del pallone, ma gli azzurri spingono. Sentono l’odore della bestia ferita, sanno che gli highlanders sono già fuori soglia, non possono continuare così ancora per molto. Torniamo con una ferocia inaudita nei loro 22, sulle ali di Gardner, di Giovanelli che sembra un lanzichenecco in odore di sacco, di Troncon che gioca ogni possesso come fosse l’ultimo. Monigo, mica tanto tacitamente, approva. È una bolgia dantesca. Chi poi ha vissuto i tempi del Pro12 e del Pro14 ha detto che una atmosfera così, una carica così, si è vista solo in un Treviso-Ospreys sotto il fango, con due mete negli ultimi cinque minuti. Si, ma a tratti, bisogna moltiplicare per minuti e per decibel.
La difesa scozzese è disperata, stringe i denti davanti i pali.
Poi Troncon apre a Dominguez per l’ennesima volta.
Se in quegli anni non è la mediana più forte d’Europa date voi un’alternativa.
E poi ancora, verso destra.
Sull’ovale si avventa un biondino, maglia numero 14.
Chiedete se si ricordano di lui a Lansdowne Road e a Grenoble, poi contate i singhiozzi.
Finta di passaggio al largo e poi dritto, dove l’erba è un po’ più alta.
Mancano due minuti, il pubblico finalmente può liberarsi e librarsi al cielo. E può finalmente dire di aver visto, forse, la più bella nazionale azzurra di sempre, ancor prima che Dominguez arrotondi il punteggio con un calcio. La prima nazionale azzurra che, di lì a un paio di anni, debutterà nel Sei Nazioni, sempre contro la Scozia. Di là del vallo salta la testa di Richie Dixon, che magari la prossima volta imparerà a non impostare un solo allenamento in vista dell’incontro, oppure ad ascoltare i suoi pari livello, vedi Brian Ashton, che già le aveva buscate da queste parti e che ancora si chiede cosa sia successo, quel giorno a Bologna, in quei dieci minuti in cui i verdi subirono tre mete senza aver ben capito il da farsi.
Uno dei suoi, in campo quel giorno a Bologna, da qualche tempo è sceso alle nostre latitudini per capire cosa sia successo quel giorno e perché tutto quel furore, tutta quella bellezza e concretezza abbinata al rugby, si vedano solo a tratti.
Si chiama Conor O’Shea, ed è uno di quelli convinti che una Nazionale come quella non può, non deve essere finita nel dimenticatoio. Che forse ha fatto solo un giro più lungo, che forse un giorno tornerà da queste parti e commuoverà ancora tutti. Che ci farà abbracciare e sentire uniti ancora una volta, ancora più di qualche volta.
Un giro lungo vent’anni, tra capitani coraggiosi, tra attacchi furenti e rimonte mozzafiato, frangenti visti sempre troppo poco eppure in grado, in un freddo sabato di gennaio, di scaldare il cuore di 9000 spettatori, di un bel po’ di gente incollatasi alla televisione e di tanti che vorrebbero che quel film, quei film, tornassero a disposizione di tutti.
Torneranno, quei momenti.
Torneremo a dirci che, nel dubbio, ne segneremo un’altra.
Ma intanto ricordiamoci di chi siamo stati.