Di Andrea Pelliccia
Memorie ovali.
Poche nel mio caso. Così poche da obbligarmi a interpolare cronache e ricordi con fantasia e immaginazione per poter scrivere qualcosa che possa interessare chi legge.
Memorie ovali.
Innumerevoli, vissute dal vivo, sugli spalti o sul terreno di gioco di un campo da rugby. Come quelle di Gian Domenico Mazzocato. Una persona che consideri riduttivo definire “scrittore”, perché scopri che è anche traduttore (Tacito e Tito Livio), esperto di San Martino (convegni in Italia e in Francia), collezionista di macinini da caffè (mostre in giro per l’Italia). E, dulcis in fundo, appassionato di rugby, sport che ha visto crescere ed evolvere nella sua Treviso e al quale ha dedicato il libro “Treviso la prima volta”, storia del primo scudetto trevigiano, con prefazione del grande Aldo Invernici. Questo libro gli valse il premio CIAR, massimo riconoscimento per uno che scrive di rugby.
E, a proposito di rugby, Gian Domenico ci regala questo scritto (non inedito, ma rivisto per l’occasione) pubblicato per la prima volta nel libro “Il Paese del Rugby 1956-2006”, dedicato ai cinquanta anni della squadra di rugby di Paese e curato dal giornalista Elvis Lucchese.
GIAN PAOLO PAVIN, L’ETERNAUTA
di GIAN DOMENICO MAZZOCATO
Treviso, 5 febbraio 1956, Stadio Comunale. È freddo e minaccia pioggia, il terreno è fangoso, impervio, sconnesso (troppo calcio e troppo rugby, sempre insieme), Treviso e Padova contendono al buio incombente gli ultimi scampoli di luce. Si gioca una partita importante, Faema contro Petrarca.
Non è solo che Padova è una corazzata costruita scientificamente per vincere e affidata a un coach ribollente di furore agonistico perché ha appena smesso maglietta e scarpette come Lando Cosi; non è solo che gli avversari padovani hanno chiuso l’andata lasciando per strada soltanto un punto, imbattuti campioni d’inverno e lanciatissimi verso il loro primo titolo; non è solo che brucia il ricordo dell’andata al Tre Pini dove Treviso ha fatto la partita e perso immeritatamente. È che questa volta i ragazzi di Treviso, allenati da un capitano di lungo corso come Topa Milani, sanno di essere a un bivio. In fondo al cuore hanno la consapevolezza di essere loro i migliori del torneo e che quel tricolore possono ancora sognarlo.
Ma o si batte Padova o si ributta il sogno in fondo al cassetto. Diventa la partita di Gian Paolo Pavin, eroe del match, blasone del riscatto trevisano, nume tutelare della crescita tecnica della banda Zucchello.
Gian Paolo ha un pacco sullo stomaco, un boccone ancora non digerito dall’andata, quando un duetto tra i due Luise vede Roberto passare il pallone a Luigi “Ciano” che schiaccia in meta. Sono i minuti finali e Treviso ha ormai il pari in tasca in quel fazzoletto di terra travestito da campo di rugby che è il Tre Pini, a due passi dal Santo che certo ci mette lo zampino, un pari che va perfino troppo stretto.
La meta del più vecchio dei due Luise ha fatto una vittima: Gian Paolo Pavin che aveva tentato l’intercetto per andare a sua volta in meta, sbilanciando anche la difesa e impedendo di fatto il recupero di Giorgio Baldan. Uno spino impiantato nell’anima, un colpo di frusta che ancora brucia.
E si capisce subito che la partita la deciderà lui. Gian Paolo gioca secondo centro, spalla a spalla con Foglia. L’amico Alberto lo lancia a ripetizione. La percussione spetta al primo centro e poi tocca a lui, Gian Paolo, garretti e fantasia, caviglie ed estro, occhi che non dicono nulla all’avversario e hanno già visualizzato il buco possibile. Pavin è magro e si porta dietro la discendenza della sua famiglia contadina, ha occhi buoni e braccia rurali da rugbista.
È del ’34, l’anno in cui al cinema esce Accadde una notte di Frank Capra, tutto miele e ottimismo. Vita durissima, però. I grandi gerarchi dell’orrore, in Italia e Germania, già pensano alla guerra e le nuove generazioni non hanno belle prospettive davanti. Subito dopo il conflitto che dalle nostre parti significò morte, miseria e, di lì a qualche anno, emigrazione di massa, per tanti ragazzi il rugby fu un modo di riscatto, di risalita, di affermazione della loro presenza. Perfino una ragione di vita. Pavin si trovava bene in quella squadra di gente senza un soldo che, nelle occasioni migliori, dopo la partita si permetteva un pasto insieme in qualche mensa aziendale.
In qualche modo c’era anche questo, nel confronto tra la povera Treviso e la opulenta Padova, che mandava in campo una squadra di gente bene, figli di professionisti, studenti universitari, futuri e ricchi professionisti a loro volta.
Contro Padova la ricca, Pavin ci prova una, due, tre volte. Per penetrazioni centrali e poi lungo la linea dell’out. Ogni volta crea il vuoto, ma inutilmente. Bloccato a un palmo dalla linea bianca. E tuttavia il capolavoro sta per arrivare, quasi lo si respira nell’aria.
Pochi istanti alla fine del primo tempo. L’arbitro, un milanese, Pozzoli, ha quasi il fischietto in bocca. Questa volta lo schema è atipico. Il pallone, Gian Paolo lo riceve da quella roccia semovente che è Giorgio Panizon. Percussione sulla terza linea padovana e pallone fuori veloce al piede, per il guizzo e poi per le mani di Pavin, attente, consapevoli. Alberto Foglia è sempre a spalla: Pavin finta il passaggio e si beve Ponchia; un’altra finta e fa deragliare Luise. Poi drizza la corsa e va in mezzo ai pali. L’estremo padovano Ventura non lo vede nemmeno passare, poi lo guarda sgomento: il ragazzino ha la rabbia giusta, li ha messi nei guai. Un lampo di luce, una folgore nel pomeriggio plumbeo.
Nasce da quella meta la consapevolezza che Treviso può guardare con fiducia al titolo. Ne segnerà quattro di mete, in quel campionato, Pavin, non molte ma tutte decisive, 15 volte presente su 18 gare.
Ma il fatto è che segnano un po’ tutti. E Gian Paolo Pavin è l’emblema della linea giovane trevisana dei Frelich, dei Sartorato, dei Fantin, dei Foglia, dei Carniato, dei Pin. Di Sandor Peron e Flavio Erri, di Remo Bortoletto, Armando Perini e Vincenzo Pattaro, di Luciano Vianello.
Erano il frutto maturo di quella squadra che aveva vinto nel ’51 il torneo Cicogna, quello che poi sarebbe diventato il campionato italiano giovanile, prima squadra veneta ad aggiudicarsi quel titolo.
Quanto tempo è passato da allora, quanto rugby.
Il pallone ovale, Gian Paolo Pavin lo ha vissuto sempre, da giocatore prima e da seminatore poi. Cosa sarebbe stato il rugby della zona a nord di Treviso (in quella sud, fortissimo, da sempre c’era Casale) senza Paolo (così è per tutti, via il Gian) Pavin? Forse non sarebbe nemmeno esistito, sicuramente sarebbe stato diverso.
Pavin è stato ogni cosa: demiurgo e manovale. Ha fatto il presidente e ha segnato le linee del campo; ha cercato gli sponsor e girato le famiglie per convincere mamme e papà preoccupati a mandare i bambini a giocare; ha coinvolto la scuola, le amministrazioni pubbliche, perfino le parrocchie. A quella rassegna del rugby giovanile italiano e internazionale che è il Città di Treviso (il Trofeo Topolino, come lo si chiama da qualche edizione) le squadre portate da Pavin sono temute e guardate con rispetto. I bambini hanno rugby già nella testa, prima ancora che nelle mani e nelle gambe. Intere generazioni hanno appreso da lui il rispetto dell’avversario, il piacere del confronto, la gioia della vittoria, l’accettazione della sconfitta, la volontà di fare meglio e crescere.
Il rugby come cultura, come mentalità, come forma di pensiero. In maniera rustica e naïf, Pavin ha saputo sempre pilotare con istinto sicuro la navicella di un rugby povero di soldi e ricco di idee, di inventiva, di passione.
Dai suoi lombi è discesa progenie purissima di rugbisti, a cominciare da suo figlio Mario, giocatore straordinario, azzurro di molte stagioni, ora tecnico emergente e consideratissimo. Figli, nipoti, e magari anche pronipoti.
Tutto da questo gentiluomo semplice, amato e stimato. I suoi coetanei, quelli che assieme a lui hanno fatto grande il rugby trevisano, giurano che se c’era uno che meritava l’azzurro in quella squadra era lui. Nella stagione dello scudetto, Treviso riuscì ad imporre ben quattro suoi giocatori ai selezionatori azzurri: Frelich, Levorato, Zucchello e Sartorato, i primi nella storia del rugby della Marca. Decisamente troppo in un rugby nazionale dominato ancora dalle scelte di casta che obbligavano ad avere una certa maglia addosso se si voleva essere presi in considerazione. In un meccanismo sclerotico e certamente un po’ arrogante, pagarono talenti purissimi come Giorgio Baldan e, appunto, Gian Paolo Pavin.
Una assenza, quella della maglia azzurra, che pesa su chi non seppe fare quella scelta, non certo su Pavin. Che rimane uomo di grande umiltà, un uomo gentile e profondamente buono. Probabilmente nemmeno lui sa e conosce e apprezza tutto ciò che è riuscito a fare per il rugby. Rubando ore al lavoro, sottraendo tempo alla famiglia. Con gioia e fantasia oltre che con fatica e sudore quotidiano. Nessuno come lui merita di sentirsi dire grazie. Un grazie che a lui basta e avanza.